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In ufficio con Roger

Il bello degli Open d’Australia è che ci fanno toccare con mano il fuso orario, lasciando che il tennis invada i lati nascosti delle nostre vite – l’intimità notturna – o quelli che di solito affrontiamo con la maschera più seria che abbiamo nella ventiquattrore – la mattina, sul posto di lavoro. E così ci imponiamo sveglie impossibili o ci piazziamo Eurosport player sullo sfondo del computer sperando di non essere licenziati (da certi punti di vista potremmo apparire insolitamente concentrati, eh).

Ma veniamo ai fatti, per quanto deformati da quella solita soggettività che ci prende di fronte alle opere d’arte. Il match d’esordio contro Johnson è andato via liscio e questo non va dato per scontato, ora meno che mai, però il livello di opposizione è stato piuttosto basso: l’americano non ha dato l’impressione di crederci nemmeno per un secondo, non ha cercato vie alternative, insomma si è consegnato senza riuscire a entrare in partita.

La sfida con Krajinovic presentava qualche insidia in più: è vero che il serbo, ondivago di suo, veniva da una battaglia vinta al quinto set contro Halys – per di più spalmata su due giorni a causa della pioggia, a discapito del riposo -, ma si tratta pur sempre del numero 41 e di un giocatore capace di buoni exploit.

L’approccio iniziale fa la differenza: Filip parte un po’ timido e rimane vittima del frullatore svizzero. Roger è in stato di grazia, tira fuori di quelle magie che ti lasciano con la mascella disossata. A un certo punto, a metà del secondo set, il re fa partire un passante di dritto sontuoso, il colpo più spettacolare del match e paradossalmente, in quel momento, perde un po’ la bussola. L’appannamento traspare in modo vistoso, perché – per quanto sembri assurdo – anche giocare troppo bene può risultare destabilizzante al momento di tornare con i piedi per terra, così Roger prima rischia, infine concede il break facendosi raggiungere sul quattro pari. Basta questo timido preallarme per svegliare Roger, che si rimette al lavoro e cala un parziale di quattro game a zero, chiudendo il secondo parziale e instradando il terzo, vinto poi per 6-1.

Ci sono stati momenti di perfezione in cui Federer è quasi sadico e quando è tutto troppo facile mi sale l’ansia, perciò ben venga quel momento complicato, è tutta benzina per i prossimi turni.

E a proposito di turni a venire, lungi da me gioire per il suicidio di massa che si sta verificando nella parte bassa del tabellone e in particolare nel quarto di Roger (dopo Shapovalov, anche Sinner, Dimitrov e Hurkacz), perché il confine tra l’occasione e il rimpianto è molto sottile e poi perché nei sedicesimi di finale dall’altra parte della rete ci sarà John Millman, che agli Us Open 2018 ci ha dato un dispiacere ancora ben vivo. Se lo ricorda bene Roger, quell’ottavo di finale, e ne parla diffusamente a fine partita con l’altro John, l’intramontabile McEnroe. Descrive l’australiano come un lottatore incredibile, molto preparato fisicamente e sempre tignoso. Fra il serio e il faceto aggiunge di aver rischiato la vita quella sera a New York. In effetti nemmeno noi possiamo dimenticare la sua espressione distrutta in quel caldo surreale, quando un match in apparente controllo si è trasformato in una salita tosta e impervia – e triste – una delle rare volte in cui il linguaggio del corpo sembrava comunicare questo concetto: fate di me ciò che volete, mi va bene perdere, purché questa sofferenza abbia fine.

A prescindere da quel problema climatico, Roger ha sofferto altre volte contro Millman e di sicuro non lo prenderà sotto gamba. Per il resto bisogna continuare così, un punto alla volta senza esaltarsi troppo, che la strada è lunga.

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